Il tumore della prostata fa sempre meno paura. Nove uomini su dieci oggi superano la malattia. Dal 1995 la sopravvivenza è infatti nettamente migliorata grazie alla diagnosi precoce e ai nuovi trattamenti combinati (farmaci, chirurgia, radioterapia). La mortalità è diminuita del 36% in 20 anni. Questi sono i dati illustrati durante il XXV Congresso nazionale della Società italiana di urologia oncologica (Siuro) che si è concluso nei giorni scorsi a Roma.

 

Con 36.000 nuove diagnosi l'anno, il carcinoma prostatico rappresenta il 20% di tutti quelli diagnosticati nell'uomo dopo i 50 anni di età, con un'incidenza maggiore soprattutto tra gli over 60. “È spesso presente in forma indolente, in circa il 30-40% dei pazienti – spiegano Giario Conti, presidente uscente Siuro e Riccardo Valdagni, presidente eletto – è caratterizzata da una crescita che può essere molto lenta e non in grado di provocare disturbi e ancor meno la morte. In questi casi è possibile adottare una strategia osservazionale come la sorveglianza attiva, tenendo sotto stretto controllo nel tempo il comportamento e l'evoluzione del tumore, riservando il trattamento chirurgico, radioterapico e farmacologico solo ai pazienti che ne abbiano bisogno. Il paziente viene quindi sottoposto a controlli trimestrali e programmati del Psa, a visite cliniche ogni sei mesi, a biopsie di riclassificazione dopo uno, quattro, sette e dieci anni dalla diagnosi”.

 

Eventuali esami aggiuntivi vengono proposti in relazione al risultato dei controlli. “In questo modo- aggiungono gli esperti – possiamo osservare il cancro e preservare la qualità di vita della persona malata, che i trattamenti attivi, soprattutto chirurgia e radioterapia, possono minare. Per i pazienti affetti da carcinoma in fase avanzata, metastatico e resistente alla castrazione, abbiamo poi una aumentata disponibilità di nuovi farmaci in grado di migliorare significativamente la sopravvivenza, che affiancano quelli chemioterapici. Oggi la sfida è capire quando e come utilizzare queste armi terapeutiche, in quali malati, con quale sequenza – concludono Conti e Valdagni – L'unica strada percorribile per raggiungere questo traguardo è l'approccio multidisciplinare; competenze diverse e complementari che concorrono insieme all'obiettivo comune, offrire più vita e più speranza ai propri pazienti”. 

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