Cosa ci ha insegnato questa pandemia? Mi verrebbe da dire, citando una favola di quando eravamo bambini, che il Re è nudo. Da anni denunciamo che l’assistenza primaria non esiste. Esistono tanti operatori – 43mila medici, 7.500 pediatri di base, 407mila operatori nella cooperazione, le farmacie dei servizi – tutti un po’ staccati tra di loro. Ora è arrivato questo virus e ci ha mostrato le criticità irrisolte del nostro SSN. Eppure, lo scorso anno, la WHO ci aveva indicato, tra i pericoli globali, questa pandemia influenzale che avrebbe potuto scatenarsi sulle fragilità e sui sistemi di assistenza primaria non supportati da adeguata tecnologia”. È l’analisi del presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, Giuseppe Milanese, intervenuto oggi alla sessione pomeridiana di “Long-Term Care FIVE. Gli Stati Generali dell’Assistenza Primaria”, evento organizzato da Italia Longeva, l'associazione per l’invecchiamento attivo istituito dal Ministero della Salute.

 

La sfida lanciata da Milanese è chiara e inequivocabile ed è rivolta innanzitutto all’interlocutore istituzionale. “Oggi qual è la prima scelta da fare?” si chiede Milanese. “Lo Stato è a un bivio e deve decidere idealmente se andare a destra o a sinistra. Se va a sinistra e usa l’articolo 118 della Costituzione, ha la possibilità di potenziare la sussidiarietà e ha a disposizione tutti questi sistemi che lavorano insieme, anche in maniera corresponsabile. Viceversa, se sceglie di andare a destra, porta avanti un’azione di revanscismo pubblico con cui statalizza tutto e internalizza nuovamente tutto, come avviene oggi con queste campagne di assunzioni per cui gli infermieri di famiglia entrano nel sistema pubblico e non ci sono più nelle RSA e nell’ADI. Non c’è una terza via, tertium non datur.

 

Milanese si chiede ancora se “sarà vera gloria questo revanscismo pubblico? Queste Unità Speciali di Continuità Assistenziale stanno funzionando realmente nel modo in cui ci aspettavamo? I piani regionali sono stati tutti fatti e hanno l’assistenza territoriale come scopo? Le liste d’attesa ci sono o sono state risolte? E in ultimo: cosa farà questo infermiere di famiglia? È lo snodo tra il distretto e gli operatori dell’assistenza domiciliare? Bisogna definirlo, perché altrimenti stiamo solo assumendo persone togliendole dalla disponibilità del Terzo Settore”.

 

Nel suo intervento, il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità ha posto all’attenzione degli interlocutori – attori e decisori del panorama sanitario riuniti nel virtual meeting di Italia Longeva – anche la questione dei finanziamenti.  “Ho letto, tempo fa, che si parlava di un miliardo per un milione di anziani. Facendo un calcolo elementare, sono 1.000 euro a testa che divisi per una tariffa minimamente valida – come quella che oggi chiamano nel Lazio tariffa sperimentale di 27 euro – equivale ad un numero di ore che non è una presa in carico”. Per Milanese “è necessario impostare un criterio di spesa che porti ad assistere le persone per un numero di ore annuo che non sia rappresentato dalle attuali 17 ore annue. Perché la vergogna reale non è solo costituita dal numero basso di persone assistite a domicilio, ma anche dal numero medio di ore che non supera le 17 in media, con picchi di 72 ore in Calabria e valli di 4-5 in Veneto”.

 

Nella fotografia del settore scattata efficacemente dal presidente Milanese non manca una considerazione a proposito del personale sanitario. “Oggi abbiamo 2,9% di over 65 assistiti, considerando le 17 ore annue di assistenza, si prevede l’impiego di 3.391 operatori a tempo pieno. Se si vuole crescere ed arrivare al 6,8% di over 65 mantenendo le 17 ore all’anno e quindi assistere circa 923 mila anziani, abbiamo bisogno di 7.925 operatori. Qualora volessimo aumentare le ore a 72, un minimo di 6 ore al mese, servono 33mila operatori. Per arrivare alla media francese, pari a 120 ore anno, ce ne vogliono 55mila. Per toccare quota 20 ore mese gli operatori necessari sono 111mila.  Dove li troviamo? Abbiamo il tempo per formarli? Io spero, invece, che si possa costruire una figura in grado di occuparsi di tutti quei bisogni socio e poi sanitari, che permetta all’ADI diventare una realtà e dare lavoro ai giovani”.

 

Milanese ha poi immaginato 4 step necessari per ridefinire e far evolvere il modello organizzativo dell’assistenza domiciliare. “Il primo è l’accreditamento. Quattro anni fa ne abbiamo costruito i requisiti con un tavolo composito a cui hanno partecipato tutti gli attori del settore. La Conferenza Stato-Regioni ha preferito invece che non vi fossero standard nazionali che andassero oltre le autonomie regionali e siamo ancora qui a parlarne. Il secondo step è costituito dalla continuità assistenziale, che passa dall’integrazione tra professionisti e dalla continuità anche con l’ospedale, perché sul territorio ci sono 43mila medici e ci sono anziani e persone con cronicità che sono nelle strutture ospedaliere e possono essere assistite a casa. Il terzo step è l’integrazione sociosanitaria, perché non esiste la possibilità di prendersi cura della gente solo da un punto di vista sanitario. I bisogni sono sociosanitari. In ultimo, il quarto step è rappresentato dalla formazione del personale che affronti in maniera adeguata, con cuore e competenze, la complessità delle cure a domicilio perché l’ADI non è un’assistenza di secondo livello”.

 

Una vision che sappia quindi scardinare il moto browniano, per dirla con le parole del mai troppo compianto professor Guzzanti, in cui si trovano oggi gli attori dell’assistenza. “Sul territorio i pazienti si trovano a saltare da un punto all’altro sperando di non finire nella non assistenza”, nota ancora Milanese, che ricorda come “La Corte dei Conti abbia individuato nei soggetti del Terzo Settore non più semplici prestatori di servizi ma dei soggetti abilitati a partecipare alla progettazione degli stessi”.

 

Un’altra assistenza è dunque davvero possibile. “In Italia”, conclude il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, “c’è una società civile – e penso a tutte le componenti – che può mettersi insieme con responsabilità, senza corporativismi. Perché nessuna nazione ha le capacità dell’Italia di venirne fuori”.

 

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