Sull’ultimo numero del mensile Panorama della Sanità, Giuseppe Milanese, presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, prende spunto dal nuovo libro dello psichiatra Vittorino Andreoli per riaccendere ancora l’attenzione sul dibattito pubblico intorno alla terza età
Ci voleva il tocco indiato dello psichiatra e intellettuale Vittorino Andreoli per gettare un fascio di luce sulla vicenda degli anziani. Anzi, dei «vecchi», come invita a chiamarli rifuggendo dall’ipocrita edulcorazione che affetta molti. Ci voleva la sua visione di ottuagenario lucidissimo nelle pagine di “Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio)” edito di recente per i tipi di Solferino per capirci un po’ di più, per meglio comprendere cioè che il dibattito pubblico sulla cosiddetta «terza età» è sbagliato nelle premesse, nei contenuti e, va da sé, nelle conclusioni.
Andreoli fa quello che sa fare egregiamente (che è sempre il modo di chi riesce ad emanciparsi dal gregge), ovvero prende tra le mani l’intera questione e la rotea, non tanto ma quel tanto che basta per poterla guardare con occhi diversi. Così, per il prodigio di questa prestidigitazione, svanisce del tutto e semplicemente quel dilemma che angustia le agende dei decisori, le tavole rotonde delle tv, le fronti pensose degli scienziati e anche i conversari fitti dei nostri parenti: se i vecchi siano utili o inutili e in definitiva, ai limiti del paradosso, se si debba consentire che vivano o decidere che muoiano.
Non si tratta di un ribaltamento di un paradigma: Andreoli proprio accantona i nostri schemi e non per proporre il suo, ma per offrirci una narrazione suggestiva, una sorta di invito al viaggio a cui sarebbe un peccato mortale non partecipare. «Ho deciso di scrivere questa lettera perché vorrei che ogni vecchio fosse consapevole della straordinarietà di aver raggiunto questa fase della vita. (…) Sto cercando di dirvi che entrare nella vecchiaia è un privilegio». Fin dalle prime battute il manifesto dell’autore è dirompente, poiché svelle l’intera impalcatura edificata dal comune sentire: la vecchiaia viene letta e proposta come condizione di pari valore (se non più pregiata) rispetto alle altre fasi della vita, comportando maggiore libertà (dalla competizione e dall’interesse), assicurando una nuova plasticità alle esigenze quotidiane, non implicando debolezza ma fragilità (che quindi non è sintomo ma connotazione autentica). Andreoli si spinge un passo più in là: «Mi piacerebbe dire che senectus caritas est, che la vecchiaia è amore», poiché «vogliamo dare amore per ricevere amore». Il messaggio, anche potenzialmente destinato a coloro i quali si occupano di cura e assistenza per gli anziani, è addirittura reso esplicito: «Abbiamo una fragilità che ha un bisogno estremo di legami forti, non di accudimenti, non di servizi per i vecchi». Non di servizi, di ragioneria delle prestazioni, di capitolati delle professionalità, verrebbe da dire, ma di premura, intessendo di umanità benevola tanto le leggi e le procedure, quanto le spesso ciniche prassi.
Il passaggio sul Covid è rapido ma nient’affatto indolore e fa il paio proprio con la necessità di una dose supplementare di amore: «Durante la fase della pandemia, la svalutazione del vecchio è giunta a doverlo porre in secondo piano per l’assistenza sanitaria, ritenendo prioritario dedicarsi alle età più giovani. Dato il limite dei reparti di cura e degli strumenti necessari, era bene riservarla a chi svolgeva capacità produttive, particolarmente importanti in una situazione che, al contempo, segnava una enorme crisi economica. La vita dei vecchi aveva un “valore sociale” ridotto e persino insignificante». Stringe il cuore a ripensare all’intero travaglio vissuto dai nostri vecchi prima, durante e dopo il contagio mondiale, per la maggior parte relegati, se fortunati, nelle proprie case o, peggio, in RSA che troppo spesso erano rifugi incivili: non si confonda l’abbandono, precisa Andreoli, con la solitudine.
Perciò l’immagine evocata è quella di Anchise, Enea e Astianatte, con «Enea che porta sulle spalle il vecchio Anchise e tiene stretta la mano del piccolo Astianatte», scena che deve tuttavia contemplare la diversità delle generazioni e dunque anche il conflitto che la diversità genera. Lo spiega, ancora una volta efficacemente, l’autore quando scrive che il conflitto è (anche) l’occasione «per promuovere, elaborandole, relazioni più intense, sia sul piano delle idee, sia su quello dei sentimenti».
Allora è qui la chiave per interpretare e risolvere una volta per tutte la vicenda degli anziani, è nella comprensione amorevole e vicendevole attraverso la quale coesistere progredendo (e quindi incamminandosi verso il futuro), senza la quale invece commettiamo un vero e proprio delitto verso l’intera umanità, verso noi stessi, verso i nostri figli, ogni giorno di più.
Giuseppe Maria Milanese
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