Giovanni Teneggi non è, come si ostina a far credere, un dirigente di Confcooperative. È un prisma. Lui intercetta i fasci di luce che attraversano il mondo cooperativo e li scompone nei colori – nei valori – fondamentali.
Il “mestiere” del prisma è, in fin dei conti, quello del profeta, se avesse senso parlare di profezie nell’epoca in cui invece tutto sembra disvelato. Ma: guai ad attribuirgli una funzione (pedagogica o etica e dunque sociale) così altisonante: se ne schermirebbe. Quest’uomo lungo e asciutto, che viene dall’Appennino Tosco-Emiliano, che rivendica le origini di montagna, che coltiva la montagna come paradigma di felicità, che talvolta sembra anche fisicamente un frantume di una delle sue vette, preferisce presentarsi, tout-court: “Sono un geometra”. Omettendo perlomeno la laurea in Giurisprudenza e dissimulando una cultura che non è manto ma è tessitura genetica, è trama, è filato avvinghiato ai suoi stessi nervi.
Ascoltarlo, nel senso di seguire il suo filo, non è mica un compito agevole. Perché bisogna inerpicarsi lungo sentieri di narrazioni suadenti che non sono mai favole ma vicende solide e profonde che lui inanella saltando dal palo di una cooperativa toscana, alla frasca di un’esperienza siciliana. Bisogna però farsi capaci che non è la logica a guidare questi resoconti, piuttosto il fervore, anzi: l’afflato. Che è, volendo infierire sul suo pudore, proprio l’alito del profeta.
Allora, fissandolo nelle iridi chiare nel mezzo di una pausa di lavoro a Palazzo della Cooperazione, diventa impellente domandargli: “Che bellezza può esserci nella cooperazione?”.