Sulle pagine di Panorama della Sanità il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità torna a parlare di un “piano valoriale sulla vecchiaia in termini di sensibilizzazione, di educazione e di formazione, coinvolgendo le forze sane del nostro Paese”

Ogni tanto riesce a chiudersi un cerchio, così che le idee e i propositi sembrano trovare una collocazione: una cittadinanza. Due anni fa, nel pieno della pandemia da Covid-19, avevo provato a prefigurare – intervenendo sul Corriere Salute – il progetto di una Fondazione pro senectute per elaborare un piano valoriale sulla vecchiaia in termini di sensibilizzazione, di educazione e di formazione, coinvolgendo le forze sane del nostro Paese e tra queste a pieno titolo la cooperazione. Nei discorsi di quel periodo, anche l’ipotesi di un nome: “Fondazione Anchise”, opzione forse banale ma in qualche modo obbligata.

A fronte di reazioni di consenso e significative adesioni morali, quell’idea si arenò, subissata dall’emergenza sanitaria via via sempre più stringente. Si trattava, come spesso accade per le buone evenienze, di un fenomeno carsico: la validità della proposta non si è affievolita, anzi, potrebbe aver guadagnato attualità nel paradosso della moltiplicazione dei nodi irrisolti.

Nelle ultime settimane la pubblicazione di due libri, su argomenti apparentemente distanti, ha concorso a riaccendere la suggestione in favore di un impegno – etico, intellettuale, politico – per la vecchiaia degli italiani. Il primo è, guarda caso, “La scelta di Enea” (Rizzoli) del mio amico Don Luigi Maria Epicoco, prezioso strumento per leggere e interpretare questa fase della Storia attraverso l’immagine forse più pregnante dell’Eneide, ormai assurta a figura universale. Troia in fiamme, l’eroe virgiliano porta in salvo il padre infermo e il giovanissimo figlio, reggendo il primo sulle spalle, tenendo l’altro stretto per la mano. Tre generazioni legate in solido ad un medesimo destino di speranza.

Il secondo libro è “La restanza” (Einaudi), dell’antropologo Vito Teti, acuta riflessione sulle polarità storiche del diritto a partire e del diritto a restare. Il focus è su questo termine tecnico già di per sé difficile, a cui l’autore attribuisce un significato ulteriore. Restare come occasione permanente di restituire valore e quindi vigore e quindi vitalità ai propri luoghi (la casa o la comunità o la società, ad esempio), come inalienabile diritto a rimanere senza soggiacere, a fermarsi ritrovandosi, di fatto a partire senza partire.

Per uno come me, per cui la casa ha sempre rappresentato il locus identitario più alto, è stato facile intravedere tra le riflessioni di Teti la traccia di una necessaria rigenerazione, quella propria di un viaggio verso la meta che si era raggiunta. In questo forse ardito articolarsi, la «restanza» fa il paio con il viaggio di Enea, insieme componendo la premessa teorica per un possibile soggetto giuridico che si pre-occupi e poi occupi dei vecchi e, di conseguenza, della generazione di mezzo e dei bambini. Perché è impossibile – e su questo bisognerà dissipare ogni ambiguità o clausura mentis – parlare della vecchiaia esulandola dal quadro di un’alleanza intergenerazionale: valorizzare e tutelare gli anziani significa anche valorizzare e tutelare le generazioni successive.

Così i due libri insieme, casualmente editi l’uno a ruota dell’altro, sembrano illustrare a dovere l’agenda di una futuribile Fondazione: non abbandoniamo il nostro luogo (la casa o le comunità o la società in cui insistiamo), ma partiamo per raggiungerlo con uno spirito nuovo, portando contenuti valoriali rinnovati, aprendolo ad una prospettiva nuova; e non partiamo da soli, ciascuno preda del proprio egoismo (di classe, di ceto o addirittura, come purtroppo accade, di generazione), ma facendoci carico dei nostri anziani e prendendo per mano i nostri bambini. Non è più, soltanto, una questione di welfare, pure importante. È un fatto di sopravvivenza sociale, è il tema ineludibile del retaggio, di ciò che vogliamo che sedimenti di noi, in definitiva di ciò che vogliamo essere.

Non deve sembrare ovvia partigianeria, adesso, la mia rivendicazione di appartenenza alla cooperazione: che è appunto un modo differente di vivere il proprio mestiere, ma anche la propria esistenza. Che individua nell’umanità altrui la misura della propria, che sa mettersi al servizio tanto delle persone che patiscono disagio, quanto del Paese che versa in difficoltà. Proprio per questa orgogliosa ragione, vorrei che la costituzione di un organismo quale la Fondazione per la vecchiaia emergesse dal campo largo della cooperazione italiana, aprendosi poi a tutti i settori e i soggetti vivi che quotidianamente e in autonomia sorreggono la malferma Italia. Immagino un raccordo vasto, non inamidato ma plastico, che fornisca un contributo concreto, non più parole ma fatti, pescando dalla nostra migliore esperienza: le tante storie, anche di cooperazione, che fanno la Storia del Paese.

Giuseppe Maria Milanese

Panorama della Sanità – giugno 2022

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