Il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità scrive sul nuovo numero di Panorama della Sanità a proposito della stagione riformatrice che attende il pianeta salute. “I programmi che esplodono le cifre previste dal PNRR non sono confortanti, perché spostano l’orizzonte della massiccia azione di investimenti lontano dalla centralità della persona umana”
Se la pandemia non dovrà evolvere in pandemonio, se cioè – per dirla con l’acuto libro di Walter Ricciardi (appunto: “Pandemonio”, Editori Laterza, 2022) – «quello che è successo non dovrà più succedere», occorrerà rispondere con ordine logico muovendosi su due direttrici: le riforme e l’umanità.
Di riforme parlano praticamente tutti i soggetti coinvolti dal sistema della salute: il Governo, i parlamentari, i partiti politici, i sindacati e le associazioni di categoria, le imprese erogatrici, certamente anche gli opinion maker. Di umanità sento parlare un po’ meno, forse perché considerata distinta e distante dal percorso di riqualificazione (o rivoluzione) sociosanitaria che interesserà il complesso di cura e assistenza da devolvere alla comunità del Paese.
Io non credo che sia così. Sono anzi convinto che riforme e umanità costituiscano ascissa e ordinata di un unico quadro e addirittura che le prime non possano essere prefigurate, programmate ed attuate senza un intreccio necessario: una tessitura di sostanza.
In apparenza l’indicazione che va per la maggiore – quasi fosse un trend topic, mentre la Storia ci inchioda ad un ritardo quarantennale! – è a destinare l’ospedale alla cura delle acuzie e l’assistenza primaria a quella delle cronicità. Fin qui, tutto bene. È raschiando sotto la superficie, tuttavia, che monta la preoccupazione.
La stagione riformatrice non è più, deo gratias, un ozioso argomento di conversazione o l’assillo di pochi, ma il tema da cui è impossibile prescindere. Lo svolgimento di questo tema mi sembra ancora controverso, perlomeno nei luoghi della decisione. Nei quali si trascura di mutuare le esperienze migliori che l’Italia ha saputo accumulare nel tempo (quelli bravi le chiamano best practice), offerte anche dall’attività sussidiaria che la cooperazione ha svolto a vario titolo al fianco dello Stato repubblicano.
I programmi che esplodono le cifre previste dal PNRR non sono confortanti, e me ne duole particolarmente, perché spostano l’orizzonte della massiccia azione di investimenti lontano dalla centralità della persona umana. Eppure era stato facile confidare che dall’esperienza caotica e dolorosa della pandemia avremmo distillato un contenuto primario, quello di un’attenzione supplementare, di una vicinanza più stretta, di una premura autenticamente significativa verso le fasce di popolazione che via via negli anni avevano patito l’indecente scopertura di una adeguata assistenza sociosanitaria.
Non passa giorno che non raccolga, accanto alle buone pratiche, angosciose storie dai buchi neri della nostra sanità. Si tratta di un cahier de doleances straziante, perché attiene ad un conflitto di sistema e quindi viene avvertito come ineludibile: le crude esigenze delle persone da un lato, le distorsioni bolse del sistema dall’altro. Tra i millemila esempi che potrei avanzare, ne ho alcuni ben presenti perché sono nomi, volti, fronti corrugate dal dolore, voci incise nella mia testa. Alla madre di quel bambino incastrato in una disabilità inenarrabile, donna coraggiosa che lamenta le poche, pochissime ore di assistenza domiciliare perché gli infermieri sono andati via, irretiti dalle sirene del posto fisso, che cosa posso rispondere? Al figlio infuriato perché il sistema risolve il tema delle cure palliative per il papà con un intervento one shot al giorno, quale aiuto posso dare?
Certo, chi eroga assistenza con lo scrupolo dell’umanità, in qualche modo prova a risolvere, tampona, magari in affanno, finché riesce: sposta un infermiere da un’equipe all’altra, prega un OSS di svolgere un turno in più, chiede ad un medico il sacrificio di tornare più tardi dalla propria famiglia, si appella al buon cuore di questo o di quello, spesso rimettendoci perfino sui guadagni, ma va bene anche così. Il problema è però ben più vasto e profondo e, nonostante ciò, la soluzione sarebbe tutto sommato facile e a portata di mano. È proprio qui, in questa piega impossibile da spiegare, la disattenzione dei riformatori all’umanità. Una distrazione che rischia di essere perniciosa perché produrrebbe effetti negativi in modo permanente, dissipando forse l’ultima occasione che l’Europa concede all’Italia per adeguare gli standard di cura e assistenza ai Paesi più evoluti. E, di fatto, non raccogliendo la lezione impartita dal Covid.
Perché investire sul mattone, costruendo o organizzando ospedali di comunità e case della salute, quando ogni dato possibile, ogni statistica terza, ogni esperienza consumata sul campo illustra una ed una sola inequivocabile verità, ovvero la carenza di personale e di un sistema di formazione all’altezza dei tempi? Il Governo destini la gran parte delle risorse europee formando anzitutto infermieri e operatori sociosanitari: i primi anche preparati al territorio, con skill tarate per l’assistenza a domicilio; i secondi con competenze più evolute, tanto da intercettare la parte più basica delle funzioni infermieristiche. L’alternativa è un desolato Monopoli di case e alberghi.
Giuseppe Maria Milanese
LEGGI E SCARICA L’ARTICOLO DEL PRESIDENTE MILANESE SU PANORAMA DELLA SANITÀ DI APRILE