Nella Giornata Mondiale contro l’AIDS, in un momento in cui la pandemia di questi mesi richiama inevitabilmente ai temi di 30 anni fa, Giuseppe Taddeo, psicologo e socio storico di OSA, ha reso una significativa testimonianza in cui ripercorre la nascita del servizio di Assistenza Domiciliare che la Cooperativa ha avviato nel 1990 per prendersi cura delle persone con AIDS direttamente nelle loro case. Un’occasione per ricordare, ma anche per non abbassare la guardia.

 

L’annuale giornata della lotta all’AIDS cade questa volta nel periodo di massima emergenza per la contingente pandemia del Coronavirus. Quanto stiamo vivendo in questi mesi richiama inevitabilmente i tanti temi che segnarono i primi anni ’90 quando nacque il servizio di Assistenza Domiciliare alle persone con AIDS: la contagiosità, la paura di contrarre la malattia, la psicosi collettiva, gli ospedali presi d’assalto e, purtroppo, i numerosi decessi.

 

Lì peraltro nasce la storia di OSA che nel 1990, in convenzione con il Comune di Roma, diede avvio ad un modello di assistenza che non aveva al momento precedenti in Italia. Il primo gruppo di operatori era tutta la Cooperativa all’epoca: giovani inesperti che, forti di entusiasmo e passione, si misuravano giorno per giorno per restituire ai numerosi utenti una dignitosa assistenza nel declino della vita.

 

Sono anni che di AIDS si parla poco, al punto che le nuove generazioni, che non hanno vissuto i tempi in cui il dibattito sulla malattia era forte e quotidiano, non sempre hanno presente i rischi di un contagio sempre possibile ancora oggi. Da tempo si assiste ad una forte rimozione sociale del problema e, per questo, in questa giornata sentiamo il bisogno di ricordare che la malattia non è stata debellata e che molto ancora bisogna fare per la prevenzione del rischio e per sensibilizzare tutti sul tema. Ci si contagia ancora di HIV, seppure oggi le cure consentono una vita possibile e se in primo piano il dibattito sociale è imperniato sulla nuova pandemia da Coronavirus.

 

I nostri assistiti non parlano di Coronavirus, sembra che il problema non li riguardi. Il corpo ha in sé un altro nemico invisibile che ha devastato l’intera esistenza comportando effetti invalidanti e sottoposto ad un pesante stigma sociale; non c’è spazio per un nuovo pericolo che porta con sé la nuova pandemia. L’angoscia e le fantasie di morte hanno lasciato una profonda ferita anche se si è scampati al pericolo evidentemente e si preferisce il silenzio di fronte a questa nuova ondata di preoccupazioni e dolore a cui tutti siamo nuovamente costretti. Il bisogno degli assistiti di non parlare del nuovo virus è rispettato da tutti noi, ma il loro silenzio implicitamente ci porta a ricordare il peso di una malattia che ancora esiste e miete vittime. Per questo, oggi sentiamo il dovere etico di ribadire la necessità di considerare un rischio ancora attuale e possibile di contagio e il bisogno di ricordare le centinaia di persone che abbiamo assistito in quasi trent’anni di servizio a casa loro.

 

Giuseppe Taddeo

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