“Il mio lavoro mi ha sempre portato a contatto con tante persone. Sono un assistente domiciliare da 20 anni. Ho trovato nell’ADI il perfetto connubio tra assistenza sanitaria e umana, esprimendo al meglio la mia persona, i miei valori e ideali. Ho fatto del mio lavoro la mia più grande passione, la mia missione, perché se c’è il cuore in quello che si fa allora c’è autenticità. Ho contratto il Covid-19 all’inizio del mese di marzo. Non avevo mai fatto un giorno di malattia in tutti i miei anni di lavoro, eppure mi sono reso conto di non essere invincibile, mi sono reso conto di dover fare i conti con qualcosa che è più forte di noi”. Da assistente ad assistito, con l’angoscia di non farcela, con la paura vissuta da sua moglie e dai suoi cari. È il “viaggio atroce” di Massimiliano, raccontato sulle pagine del Magazine 50MILA VOLTI nell’edizione speciale dedicata all’impegno della Cooperativa nelle zone rosse d’Italia.
“In ospedale la mia visione passa dall’infermiere al paziente, da colui che cura e assiste a colui che chiede di essere curato, percependo così entrambi i punti di vista: la paura negli occhi di chi si sente perduto, di chi si aggrappa con tutte le poche forze rimaste alla vita, annaspando in preda a convulsioni, di chi ha il viso scavato dal dolore e dalla fatica per non riuscire a respirare, affrontando tutto questo in totale solitudine. Dall’altra parte, mi sono reso conto dell’impotenza degli infermieri e dei medici, della loro disperazione, della corsa verso tutti e oltre quello che è possibile fare. Io l’ho scampata, ma non riesco a viverla con serenità. Non sono ancora del tutto sereno, perché mi torna in mente tutto quello che ho visto, sentito e vissuto, mi sento angosciato e malinconico”, sottolinea. “Vedevo il monitor della saturazione dell’ossigeno che continuava a scendere, non avevo le forze per reagire, era tutto offuscato e distante. Quando giunse il medico dicendomi che avrebbero dovuto portarmi in rianimazione, altrimenti forse non ce l’avrei fatta, mi è passata davanti tutta la mia vita. Continuo a pensare a coloro che sono morti, tra il dolore e la paura del ritrovarsi da soli, perché come è necessario cercare di vivere bene, è altrettanto necessario morire allo stesso modo. Questa impossibilità di elaborare e celebrare il lutto è la ferita che più rimane aperta”.
“Ora è brutto lavorare con queste restrizioni, perché si è più preoccupati del virus che del paziente. Dobbiamo impegnarci a ricreare, ricostruire il rapporto umano che caratterizza l’assistenza domiciliare anche solo attraverso gli occhi, le parole”, conclude.