Il Presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, Giuseppe Milanese, è intervenuto sulle pagine del numero di febbraio di Panorama della Sanità, mensile dedicato all’informazione e all’analisi dei sistemi di welfare. Di seguito il testo integrale dell’articolo.

 

“L’ANNO DELLA PAURA NERA”

 

A occhio e croce è facile tracciare un bilancio sentimentale dell’anno che si è appena concluso, e cioè cogliere come la paura sia stato il sentimento prevalente, il tragico compagno di giorni e notti dell’intera umanità. Tuttavia, se qualcuno – tra i più resilienti o sfrontati – rifiutasse questa conclusione, potrebbe compulsare l’ultimo rapporto elaborato dal Censis, didascalico forse come mai prima d’ora. È già il primo capitolo a dettare la linea: «L’anno della paura nera», un titolo a tinte gotiche per illustrare uno stato delle cose che, pur essendo eclatante, cela una serie di significati reconditi se possibile ben più allarmanti.

 

Il terrore di essere spazzati via dalla morte, o anche inghiottiti dal magma asfittico delle terapie intensive, ha alimentato – nel caso di specie tra gli italiani – la convinzione che sia preferibile condurre una vita a sovranità limitata anziché soccombere. L’indagine porta a una conclusione univoca: è considerata accettabile la compressione delle libertà individuali, delegandone la responsabilità allo Stato, in favore della tutela della salute. Una condizione di straniamento per così dire costituzionale in cui il godimento di un diritto escluderebbe l’altro.

 

Lo strabismo del messaggio documentato dall’autorevole istituto fa tremare le vene dei polsi ma resta una fotografia vera e propria dello status quo con cui è urgente fare i conti. Non è peregrina l’immagine a cui il Censis accosta lo Stato, perlomeno nella versione hobbesiana del cittadino che preferisce ridurre la propria partecipazione a mera sudditanza: è l’effigie mostruosa del Leviatano.

 

Se le compulsioni non possono essere controllate, insiste però una responsabilità oggettiva ed è quella di accogliere, interpretare e convogliare quelle spinte dal potenziale esito autodistruttivo per individui, comunità, società in direzioni diametralmente opposte. Si può abbandonare la società italiana nel crogiuolo della paura, conseguentemente alimentandone la soggezione nei confronti di uno Stato dalla proiezione totalitaria? O piuttosto occorre lavorare per rinforzare la certezza dei diritti, anche e soprattutto nel mezzo della buriana del Covid, così rinsaldando l’autonomia costituzionale degli individui, delle comunità, della società intera? E a chi spetterebbe tale compito? Proprio allo Stato, che invece o indugia e tentenna per uno storico deficit di impalcatura, o si gode ambiguamente la convenienza di una posizione determinante, letteralmente determinante cioè del destino di inermi cittadini. In realtà è proprio in questa apparente convenienza che risiede l’impudica sconvenienza di una sovranità male interpretata, come può rilevarsi in certe tendenze e in certi provvedimenti revanscisti recentemente proposti o realizzati anche in materia di sanità.

 

Lo Stato non può incoraggiare la pur legittima paura dei suoi cittadini; ed anzi deve tramutarla, direttamente o indirettamente, in motivazione, che è sempre il lato operoso della speranza. Lo Stato, quindi, per completare il sillogismo, ha il dovere di generare speranza, a fortiori quando sembra imperare la disperazione. E come può farlo? Con un duplice sforzo. Il primo – che sollecitiamo fino a sgolarci da alcuni decenni – è quello di restituire fiducia nel sistema della salute. Che certamente vuol dire garantire la salute in tempo di pace e in tempo di guerra, non facendosi travolgere dall’impatto di un’emergenza, ma vuol dire anche assicurare salute tanto in ospedale, quanto fuori dall’ospedale, in modo da costituire un sistema integrato, plastico e robusto di cura e premura per ogni stadio di bisogno del cittadino-utente.

 

Il secondo, più di carattere etico-culturale, è quello di educare – ma non in senso dirigista – a reazioni alternative: così che potremo allentare l’inclinazione all’autocommiserazione da cui in fondo ciascuno di noi è più o meno afflitto, muovendoci finalmente verso il terreno fecondo della solidarietà. Uno dei difetti che ha da sempre caratterizzato l’uomo è stato la scarsa capacità di fare tesoro del passato o della Storia. Noi abbiamo un esempio di grandiosa resilienza nel secolo breve: costellato in successione da un conflitto mondiale, dalla pandemia della spagnola, dalla Grande depressione del ’29, dai totalitarismi, dalla Seconda Guerra mondiale, dall’Olocausto, da una serie di altri conflitti disseminati nel globo terracqueo e nei decenni. Eppure, a memoria, guardando da bambini i nostri anziani, non riuscivamo a capire che la loro vita era stata tanto travagliata ed in bilico. Da cittadini del terzo millennio, mediamente agiati, mediamente tranquilli, mediamente comodi, ci lamentiamo come se non avessimo un domani. Ecco, consideriamo la vita, ma anche i nostri assetti sociali come doni e conquiste. E diamoci da fare perché quella parte di mondo in cui muoiono 12mila persone al giorno – di cui 8mila bambini – diventi, e non con Orwell, un po’ più «uguale» alla parte in cui noi sembriamo da troppo tempo poltrire inutilmente.

 

Giuseppe Maria Milanese

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