Il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità sulle pagine del mensile Panorama della Sanità: La determinazione di formare una schiera di queste figure professionali sbroglierebbe la matassa nel breve periodo, consentendo all’Italia di allinearsi ai Paesi più evoluti, creerebbe nuova occupazione per i giovani e restituirebbe dignità ad una generazione che merita rispetto

Una casa disabitata si riduce a quattro mura in piedi. Una scuola priva di docenti è una comune infeconda. Una caserma che manca di soldati assurge a simbolo della resa. Il sillogismo vale anche per la sanità, intesa come struttura portante della salute e nelle diverse articolazioni in cui deve servire la comunità di un Paese.

Il recentissimo Rapporto CREA (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità dell’Università di Roma Tor Vergata), autorevole studio giunto alla 18° edizione, illustra senza possibilità di equivoci proprio questo crinale, identificato nel titolo: “Senza riforme e crescita, SSN sull’orlo della crisi”. Su quell’orlo è cruciale la questione del personale, ribattuta ormai innumerevoli volte dalle agenzie di stampa nel corso degli anni stravolti dal Covid e poi quotidianamente strillata dai mass media fino ai giorni nostri.

I dati sono impressionanti, in termini assoluti e relativi, poiché affrescano il quadro di un pesantissimo ritardo accumulato negli anni e un gap di programmazione ingiustificabile: per adeguarsi ai cosiddetti «Paesi benchmark» (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna), l’Italia dovrà colmare un vuoto di 30mila medici e 250mila infermieri. E questo stando all’attuale assetto sanitario, ancora incentrato sull’ospedale. Poiché scontiamo tuttavia l’assenza di un sistema di assistenza primaria e cioè di un filtro osmotico che convogli verso i nosocomi soltanto le acuzie, destinando invece le cronicità al territorio (case, RSA, centri diurni), oggi patiamo l’affollamento inutile e improprio dei pronto soccorso e dei reparti ospedalieri. Sembra assodata – almeno sulla carta, almeno nelle intenzioni dei decisori politici – la necessità di edificare un sistema territoriale; meno chiara la prospettiva di costruirlo attorno alla medicina di base, alle farmacie dei servizi, alla cooperazione socio-sanitaria che negli anni hanno costituito una rete per sostenere in forma sussidiaria il Paese. Questo modello sembra il più efficace (ed anche il più virtuoso) per compensare le esigenze di una fascia di popolazione con patologie croniche e un’età media ben più alta che altrove.

È evidente che l’urgenza di reperire personale – una urgenza all’italiana, ovviamente, della paradossale categoria delle urgenze permanenti – sarà a stretto giro superata da un grado ulteriore di pressione, anche per l’impatto che avrà il Ddl delega per gli anziani, encomiabilmente approvato dal Governo lo scorso 19 gennaio, in attuazione del PNRR. Nel testo è indicata tra le priorità l’assistenza domiciliare, da un lato punctum dolens del sistema della salute italiano, dall’altro trend topic dei dibattiti seri e di quelli oziosi: con il problema (e qui il cane si morde la coda) che diventa spiccatamente difficile assistere i malati a casa se non si dispone di operatori sanitari.

Perciò: è acclarato che all’Italia mancano medici e infermieri per le cure ospedaliere, così come è palmare che ne mancheranno per strutturare un adeguato sistema di cure domiciliari. Come si risolve un così grande grattacapo, prossimo peraltro ad ingrossarsi? Cassando i test di ammissione alla facoltà di Medicina? Sì, certo, anche: ma porterà frutti sul lungo periodo. Dischiudendo le porte delle scuole di specializzazione? Va bene, ma anche questi risultati non sarebbero immediati. Invogliando potenziali medici e infermieri con i tanto attesi aumenti di stipendio? Iniziativa necessaria ma non risolutiva, nella misura in cui è qui ed ora che occorre una moltitudine di professionisti pronti a riversarsi tanto nelle corsie, quanto nelle case.

Allora? Si provveda a normare la formazione dell’operatore socio-sanitario specializzato (OSSS), per il quale la specializzazione sia utile a farsi carico delle funzioni infermieristiche di base, nulla togliendo agli infermieri così come già accade pacificamente in alcune regioni italiane. Un processo qualificante, è appena il caso di dirlo, che andrebbe focalizzato tanto sulla professionalizzazione tecnica, quanto sulla umanizzazione delle cure, nodale per assumere la responsabilità anche etica, anche valoriale di assistere un malato nella propria casa. La determinazione di formare una schiera di queste figure professionali sbroglierebbe la matassa nel breve periodo, consentendo all’Italia di allinearsi ai Paesi più evoluti, creerebbe nuova occupazione per i giovani più sensibili e motivati e finalmente restituirebbe dignità ad una generazione che merita rispetto.

Giuseppe Maria Milanese

Scarica e leggi l’articolo in formato pdf pubblicato sul numero di Panorama della Sanità di marzo

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