Il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità intervistato dal mensile Panorama della Sanità: Riteniamo che il terzo settore fondato sul modello cooperativo possa aiutare il servizio sanitario nazionale in un sistema in cui lo Stato deve programmare e controllare severamente anche il mondo cooperativo
Presidente, la sanità pubblica sta attraversando un periodo difficilissimo dove a rischio di sopravvivenza è il nostro Ssn. Esiste un altro modello vincente di sanità che può salvarlo?
È difficile tornare indietro rispetto a un sistema pubblico strutturato come il nostro ma bisogna diventare consapevoli che non può più dare tutto a tutti. Noi diciamo da tempo che il Ssn deve concentrarsi sull’ospedale, modello che è fra i primi al mondo e che non dovrebbe dipendere dalla capacità di spesa. Oggi lamentiamo che proprio l’ospedale non sia accessibile perché ingorgato dalla domanda che deriva dal territorio, la cui domanda di salute a sua volta è priva di risposte adeguate. Quindi, come l’OMS sollecitava a fare già nel 1978, è impellente intervenire sul territorio con una logica sussidiaria che affronti il problema delle cronicità, delegando all’ospedale le acuzie.
L’Italia può contare su erogatori di salute nell’alveo del privato sociale, del Terzo Settore a cui la Costituzione affida il compito della sussidiarietà orizzontale. Lei stesso ha evidenziato che troppi Governi hanno invece o relegato a strumentali funzioni ancillari o spinto ai margini di attività minori. Cosa serve per far cambiare questo approccio?
Serve anzitutto un riconoscimento del ruolo del terzo settore. Mi spiego: per troppo tempo e di qualunque colore fosse il Governo in carica, al terzo settore non è stata riconosciuta la sua natura imprenditoriale e questa è una pesante incongruenza, dato che la formula cooperativa è l’unica giuridicamente tutelata dalla carta costituzionale. La cooperativa è un’impresa a tutti gli effetti con la differenza, rispetto alle società di capitali in cui i proprietari sono i possessori delle azioni e quindi si conta per capacità in termini capitalistici, che i proprietari sono tutti i soci lavoratori. Allora noi riteniamo che il terzo settore fondato sul modello cooperativo possa aiutare il servizio sanitario nazionale in un sistema in cui lo Stato deve programmare e controllare severamente anche il mondo cooperativo.
Quali sono gli elementi imprescindibili per un rinnovamento del nostro sistema di welfare?
È imprescindibile ripartire dall’assistenza primaria, costruendo dei sistemi di governance che si occupino solo di questo e strutturare dei percorsi assistenziali fondati sul cosiddetto continuum assistenziale, attraverso cui curare le persone affette da malattie croniche quando possibile a casa e quando non possibile in residenze e centri diurni, senza ricorrere inutilmente agli ospedali.
Parliamo dei nostri anziani. Su queste pagine più volte lei ha scritto sulla valorizzazione della prospettiva di umanità nel percorso di cura attraverso una visione che restituisca rilevanza e dignità ai nostri anziani. Che ruolo gioca la formazione per l’umanizzazione delle cure?
Un ruolo cruciale: non si può erogare assistenza domiciliare senza una formazione specifica. Non si tratta solo di una formazione tecnica che comunque va recuperata, penso dapprima alla semeiotica, ma anche all’aspetto vocazionale, all’approccio umanitario da avere quando si entra nel luogo più intimo di una persona fragile.
Passiamo al Ddl anziani. La scadenza per i decreti attuativi era fissata per gennaio 2024. C’è il rischio che venga lasciato in un cassetto? In tal caso cosa perdiamo?
Perderemmo un’occasione irripetibile. I decreti attuativi sarebbero dovuti uscire a fine gennaio ma è in piedi l’ipotesi di guadagnare qualche altro mese. Non avremmo più l’occasione di investire, in una società con un’età media tanto elevata, su una categoria di persone che ha edificato questo Paese. Sarebbe realmente delittuoso in questo momento non reperire risorse adeguate a realizzare concretamente questo cambio di passo.
Ci può indicare i principali fattori di debolezza dell’assistenza domiciliare integrata nel nostro Paese?
Il primo è certamente la disomogeneità, abbiamo 20 regioni che legiferano in maniera diversa. Poi abbiamo un’assistenza configurata in modo prestazionale, ovvero priva di una logica di presa in carico vera e propria. Quindi la carenza di personale, problema che affligge tutto il comparto della salute, e in questo caso occorre formare un operatore sociosanitario con formazione complementare che supporti gli infermieri, i fisioterapisti e i medici. Infine, nessuno ha finora inteso definire dei percorsi di cura: noi contiamo 6 cronicità, non 60, e perciò per ognuna vanno predisposti dei percorsi che, partendo dal domicilio, provino a mantenere quel paziente il più possibile in un iter assistenziale che eviti il ricorso all’ospedale.
Nonostante se ne parli in tutte le sedi, appare ancora lontano l’obiettivo di fare del domicilio il primo luogo di cura. Quali scelte potrebbero essere strategiche per far sì che ciò avvenga realmente?
Le scelte ce le indica il PNRR, che segna con chiarezza gli incrementi in termini di persone assistite e di ore di assistenza erogate da raggiungere. Ho una preoccupazione fin da quando ho cominciato a lavorare nell’assistenza domiciliare: e cioè che a prevalere siano gli interessi dei soggetti economici – a cui il sistema si è sempre adattato – e non delle persone, che in realtà sono le uniche di cui dovremmo occuparci.
Che ruolo gioca la transizione digitale nella cura e nell’assistenza ai malati? Esistono secondo lei dei limiti?
Importantissimo ma voglio dire ad alta voce che è uno strumento, prezioso anche perché in parte potrà colmare la carenza di personale, che dovrebbe essere utilizzato da persone non sono native dal punto di vista digitale; quindi, è uno strumento che sarà in mano a operatori e familiari dei pazienti. Per farla breve: la telemedicina o la teleassistenza o la telesorveglianza o il telemonitoraggio, anche qui occorrerà definire bene l’ambito, necessiteranno di una formazione specialistica adeguata.
Da tempo si parla di integrazione sociosanitaria, ma sembra che siamo ancora molto lontani nell’attuazione pratica. Cosa serve per realizzarla concretamente?
L’integrazione non si è di fatto mai realizzata. L’assistenza sociale viene erogata dai Comuni, quella sanitaria dalle Regioni e, noi ne siamo quotidianamente testimoni, i due enti non si parlano mai. Occorre un unico collettore di risorse, un’unica cisterna che distribuisca l’acqua sui due versanti calibrandola a seconda delle reali esigenze.
Il diritto alla salute, che è l’art.32 della nostra Costituzione, rimane un diritto che non è garantito a tutti. Come possiamo vincere la sfida dell’equità nell’accesso alle cure sanitarie? E poi, qual è la sua opinione sul rapporto tra Autonomia differenziata e tutela della salute?
Il Titolo V ha originato una sperequazione in termini di aspettativa di vita tra nord e sud, dove il Mezzogiorno è sempre soccombente e questo, ancora una volta, a causa della correlazione tra capacità di spesa e diritto alla salute.
Da molti anni il problema principale per il Ssn sembra essere quello del finanziamento. Ma è solo una questione di risorse?
No, non solo: è una questione di regia unica, di utilizzo delle risorse, di motivazione delle persone. Nessun medico sceglie la facoltà di medicina prevedendo un percorso di studi di 10 o 11 anni soltanto per il fattore economico. Affinché questa vocazione possa essere mantenuta viva c’è bisogno di sentirsi parte di un sistema e di un sistema fluido, funzionante.
Parlando sempre di risorse. Nonostante la prevenzione sia la cura migliore, per tanti rimane un’occasione persa. Come incentivare prevenzione, screening e corretti stili di vita?
Anche la prevenzione purtroppo ha a che fare con la capacità di spesa, i dati indicano che l’italiano è un paziente con più malattie croniche (penso all’artrosi, ad esempio) proprio mancando la cultura della prevenzione. E registriamo anche un altissimo livello di depressione che non ci saremmo mai aspettati rispetto alla natura dell’italiano stesso. Quindi i programmi di prevenzione dovrebbero essere innanzitutto gratuiti e omogenei su tutto il territorio nazionale e arrivare fin nelle case delle persone, ma integrati nell’assistenza domiciliare, anche tramite i fondi integrativi e le mutue.
Lei è presidente di Confcooperative, qual è lo stato di salute della cooperazione sociosanitaria?
Il sentiment dei cooperatori è sempre buono perché insiste un ottimismo di fondo che ha le sue radici nella vocazione per cui è iniziata l’avventura cooperativa. È chiaro che se, il fattore discriminante è il lucro, la cooperazione fa fatica perché è vocata a dare lavoro e non dividendi. So che il modello cooperativo è stato tante volte abusato ma abbiamo anticorpi perfettamente efficaci: la vicenda dei gettonisti è l’ultima in ordine di tempo ma noi, come Confcooperative Sanità, abbiamo per tempo interdetto questa degenerazione. Ogni volta ci tocca spiegare che noi non speculiamo sui bisogni e sulle falle del sistema sanitario ma rappresentiamo quella categoria di piccoli muratori che provano a coprire quelle falle mettendo a disposizione il nostro lavoro e soprattutto un modello di impresa virtuoso.
Cosa manca per un vero e proprio riconoscimento del ruolo dell’impresa cooperativa in sanità?
Che il sistema pubblico comprenda a fondo il valore della sussidiarietà e della mutualità e riconosca un ruolo, fondato su regole certe e univoche, ad intere comunità di persone che hanno edificato imprese basate sul lavoro coscienzioso e non sul profitto.
Pubblico e privato. Cos’è che ci impedisce ancora di superare l’anacronistica contrapposizione tra questi due mondi? Si raggiungerà mai una sinergia virtuosa tra la componente di diritto pubblico e quella di diritto privato in sanità?
I dati indicano che in tanti settori la componente privata, anche se convenzionata con il pubblico, è predominante, quindi questo confronto è ideologico. A fronte di questo fenomeno che esiste ed è ineludibile, occorre una forte attività regolatoria da parte dello Stato e che la politica sappia differenziare nell’ambito del privato tra profit e no profit, non per stigmatizzare i primi a scapito dei secondi, ma per configurare più funzionalmente il sistema.
Nel 2023, Confcooperative ha siglato accordi con la Fnomceo, la Fnopi e anche con la Fno Tsrm e Pstrp. Con quali obiettivi?
Lo scopo è di stabilire una relazione con tutte le professioni sanitarie esistenti sul territorio – medici, infermieri, logopedisti, tecnici della riabilitazione, fisioterapisti – per raccontare il metodo cooperativo, trovare un terreno etico-culturale comune, e poi definire con loro un quadro di regole sull’assistenza primaria utile a superare il naturale istinto corporativistico di ciascuna professione e a costruire sul territorio una rete di assistenza completa e integrata.
Nel 2022 è stato confermato alla guida di Confcooperative Sanità per il terzo mandato. Quale traguardo raggiunto le ha dato maggior soddisfazione?
Innanzitutto, formare un gruppo dirigente capace di progettare il futuro; poi mettere insieme allo stesso tavolo farmacisti, medici di medicina generale, operatori sociosanitari per costruire modelli innovativi; infine, diventare interlocutori credibili delle istituzioni che governano la cosa pubblica.
E guardando invece in prospettiva: c’è una bella notizia che le piacerebbe ricevere nel corso di questo 2024?
Sì: che gli anziani siano assistiti secondo percorsi di cura finalmente adeguati e rispettosi, degni di un grande Paese come il nostro.
Intervista pubblicata su Panorama della Sanità di febbraio 2024, scarica qui l’articolo in pdf