L’analisi del presidente Giuseppe Milanese su Sanità 24, la prestigiosa testata online del Sole 24 Ore dedicata alla salute
Dal momento della sua approvazione il PNRR è divenuto, inevitabilmente, la pietra di paragone di qualsiasi ipotesi di ammodernamento del SSN, soprattutto sul versante della sanità territoriale. Le linee di investimento previste, infatti, individuano con nettezza i modelli organizzativi su cui fondare un nuovo assetto dell’assistenza sul territorio, risorse e tempi compresi. Mi riferisco a modelli, cifre e dati ampiamente conosciuti e dibattuti. Eppure è utile rifletterci su, non foss’altro perché dalle schede progettuali del PNRR emergono alcuni elementi di criticità che pongono qualche interrogativo circa la “solidità” della nuova architettura del territorio.
Il primo riguarda le nuove strutture. Com’è noto, le risorse stanziate per le 1.288 case della comunità e per i 381 ospedali di comunità saranno assorbite dalla costruzione o ristrutturazione e dalla dotazione tecnologica dei nuovi presidi, con un costo medio per struttura stimato in 1,6 milioni per le prime e in 2,6 milioni per i secondi. Accantonando la mia perplessità sulla reale efficacia di estendere, a livello nazionale, modelli con una precisa identità regionale (tosco-emiliana, per le case della comunità; veneta, per gli ospedali di comunità), la questione pesa sul personale necessario per sostenere a regime queste strutture.
Per le case di comunità, se si escludono i medici di medicina generale, il fabbisogno di personale è stimato in 6.440 amministrativi e 10.091 infermieri. Sono stati stanziati solo 94,5 milioni (appostati nel Decreto Rilancio) per l’assunzione di 2.363 infermieri di comunità, mentre per le restanti 14mila unità il PNRR non contempla oneri aggiuntivi a carico del SSN, in virtù di una complessiva riorganizzazione del personale delle cure primarie. Si presume, pertanto, un vasto spostamento di risorse umane da altre strutture.
Per gli ospedali di comunità, invece, a fronte di un fabbisogno di 3.429 infermieri e 2.286 OSS (a cui si devono aggiungere 534.924 ore mediche/anno), è stata calcolata una spesa ulteriore di circa 240 milioni, da coprire attraverso i futuri risparmi derivanti dal cosiddetto “Piano di Sostenibilità”. Si tratta della riduzione delle ospedalizzazioni per malattie croniche e degli accessi inappropriati nei PS per i codici bianchi e verdi, nonché della minore spesa farmaceutica per tre classi di farmaci ad elevato consumo e alto rischio di inappropriatezza. Un discorso analogo investe anche l’assistenza domiciliare. I costi per assistere a domicilio 807.970 nuovi pazienti ammontano infatti a 1,6 miliardi, di cui solo 500 milioni sono finanziati dal Decreto Rilancio. Dal 2027 mancheranno all’appello 1,1 miliardi, da reperire sempre attraverso il Piano di Sostenibilità.
Pur convinto che una maggiore capacità di risposta sul territorio genererà economie sui livelli di maggiore complessità, ospedale in primis, è difficile prevedere risparmi per oltre 1,3 miliardi nel 2027 come prospettato dal Piano. Anche perché, e ciò conduce al secondo aspetto critico, il PNRR reitera uno dei principali fattori di debolezza dell’assistenza domiciliare nel nostro Paese. C’è infatti una questione di ampiezza del bacino di utenza, considerando che non ci schiodiamo dal 2,8% di over-65 trattati, ma c’è anche un problema di continuità dell’ADI, con una media nazionale desolante di 15 ore/anno di assistenza per paziente. La stratificazione contenuta nel PNRR prevede tra le 12 e le 36 ore di assistenza all’anno per l’80% dei nuovi utenti. Numeri affatto distanti dagli standard europei e che ripropongono, in chiave sanitaria, la celebre storia del “pollo di Trilussa”, per cui tutti i pazienti, in termini di distribuzione statistica, sembrano assistiti, mentre nei fatti solo il 20% riceve cure degne. Tra l’altro, con livelli assistenziali così bassi, è difficile immaginare quei benefici attesi sul setting ospedaliero su cui si fonda l’attendibilità del Piano di risparmi.
L’ultima criticità riguarda il personale, rischiamo infatti una riforma “senza braccia”. Rispetto alla sola ADI, per sostenere 900mila nuove prese in carico occorreranno almeno 110mila operatori, perlopiù infermieri, che non ci sono. Il PNNR calcola 96mila nuovi infermieri formati per il 2027, ma bisogna considerare i pensionamenti, stimati nel Piano ottimisticamente in 26mila (2020-2026), rispetto ad un dato reale di quasi 38mila infermieri pensionati tra il 2014 e il 2018. I conti non tornano, per cui sarà utile configurare nuovi profili professionali (l’OSS specializzato) con una formazione ad hoc nell’ADI, sotto la supervisione ed il coordinamento infermieristico.
Nessun quadro a tinte fosche ma, perché tale riforma sia sostenibile sul lungo periodo senza alimentare una mole di spesa corrente ingestibile, sarà necessaria una scelta di metodo. Nella mia prospettiva tale metodo non può che essere la sussidiarietà e il partenariato tra sistema pubblico ed erogatori privati accreditati, chiamati, in virtù della loro flessibilità, a gestire l’erogazione dei servizi.
Giuseppe Milanese – Presidente OSA e Confcooperative Sanità
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