Una rivoluzione per essere tale non deve necessariamente suscitare clamore. Ne sono accadute di tacite che, non per questo, hanno inciso meno o meno efficacemente nei sistemi su cui sono intervenute. Nelle ultime settimane si è consumato un rivolgimento di impatto epocale – una rivoluzione, appunto – nel silenzio dei più e nell’attenzione di pochi, quasi che fosse d’obbligo una discrezione scaramantica. Eppure si tratta di uno snodo cruciale, destinato a ribaltare la stessa natura culturale e poi gli effetti concreti dell’assistenza primaria. La novità è annidata tra le pieghe dell’ultima Legge di Bilancio: l’approvazione di un emendamento proposto, come primo firmatario, dall’onorevole Giorgio Trizzino ha introdotto un percorso di accreditamento per le cure domiciliari, ribaltando lo spirito e la prassi fin qui consolidati, introducendo il pluralismo, la libertà di scelta e la competizione tra erogatori per qualità ed efficacia”. È quanto scrive il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità, Giuseppe Milanese, sull’ultimo numero di Panorama della Sanità, mensile dedicato al welfare.

“L’ispirazione, è appena il caso di precisarlo, non è nuova. C’è chi ha battuto su questo tasto per anni (decenni!) e tra questi vanno menzionati anzitutto il Terzo Settore e Confcooperative Sanità. Non è tuttavia l’occasione di rivendicare un merito, quanto piuttosto il momento di attraversare il crocevia della Storia: e tracciare il futuro. Che cosa è accaduto, nel concreto? I legislatori hanno apportato modifiche apparentemente minuscole al Decreto legislativo 502/92, che aveva a suo tempo radicalmente riformato il Servizio Sanitario Nazionale. Le cito qui stralciandole dalla Gazzetta Ufficiale, anche sfidando il calo dell’interesse, per dimostrare plasticamente quanto poco basti per guadagnare in termini di progresso: «a) all’articolo 8-ter, comma 2, sono aggiunte, infine, le seguenti parole: “, e per l’erogazione di cure domiciliari”; b) all’articolo 8-quater, comma 1, dopo le parole: “che ne facciano richiesta,» sono inserite le seguenti: “nonché alle organizzazioni pubbliche e private autorizzate per l’erogazione di cure domiciliari,”; c) all’articolo 8-quinquies, comma 2, allinea, dopo le parole: “e con i professionisti accreditati,” sono inserite le seguenti: “nonché con le organizzazioni pubbliche e private accreditate per l’erogazione di cure domiciliari”». Tutto qui. Quattro parole apparentemente innocue per estendere la disciplina denominata delle “3A” (autorizzazione, accreditamento, accordo contrattuale) alle cure domiciliari. L’autorizzazione assume quindi il profilo di requisito essenziale per operare nell’assistenza domiciliare, perfino in regime esclusivamente privatistico. Una inversione a U scatenata da un vero e proprio «ritocco» normativo, come nel paradosso attribuito a Pascal: «Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra». È la strada per dare un taglio alla annosa questione delle gare d’appalto, spesso contese al massimo ribasso, con ripercussioni in termini di qualità dell’assistenza e dei diritti dei lavoratori. Un sistema che negli anni ha generato, nella migliore delle ipotesi, disomogeneità territoriali, nella peggiore sistemi di malaffare e pessima salute. I cittadini, ben prima degli operatori virtuosi, hanno atteso per troppo tempo di poter godere di una assistenza territoriale allineata ai parametri stabiliti nel resto d’Europa”.

Scrive ancora il presidente Milanese: “Per avere un quadro immediatamente chiaro: il 6,6% di ultrasessantacinquenni assistiti a casa contro una media italiana del 2,8%; 20 ore al mese per un tedesco contro le 17 ore annue per un italiano!”. E ora? Ora, ça va sans dire, il legislatore dovrà essere conseguente, declinando procedure coerenti rispetto al quadro dei bisogni, ormai storicizzati e dunque presumibilmente definiti. La parola dunque alle Regioni, finora su diversi fronti assestate in posizione antagonista rispetto allo Stato centrale, e cioè a dimostrazione di una inefficacia originaria della riforma del Titolo V della Costituzione. Attenzione, però: un accreditato sondaggio di opinione pubblicato recentemente sul Sole 24 ore illustra chiaramente come le istituzioni regionali siano percepite lontane dai cittadini e dalle loro esigenze. E non solo: sono pochissimi gli italiani convinti che possano essere le Regioni a indicare le regole per affrontare la pandemia. I rimpalli di responsabilità tra Stato e Regioni e le conseguenti vertenze giuridiche hanno di fatto stufato gli italiani i quali, sempre dalla medesima indagine demoscopica, dimostrano di non conoscere il sistema di leggi che regola la convivenza tra Stato centrale e autonomie. A tal proposito, appena al 14% è noto che il Titolo V attribuisce competenza esclusiva allo Stato sulle decisioni per i livelli essenziali di assistenza, mentre la tutela della salute è di competenza concorrente. È accaduto però che la gestione dell’emergenza da Covid-19 attraverso decreti e proroghe è in qualche maniera divenuta una esclusiva dello Stato, con tutta probabilità rassicurando i cittadini, in ambasce da mancanza di punti di riferimento univoci, stabili e certi. Lo affermano platealmente alcuni risultati del sondaggio: il 62% degli interpellati non gradisce che su argomenti sensibili come la sanità possano intervenire indifferentemente Stato e Regioni. In particolare, poi, il 50% è convinto che le regole per affrontare l’emergenza sanitaria debbano essere concordate da entrambe le istituzioni, abbattendo la soglia delle contrapposizioni. Soltanto il 10% attribuirebbe esclusiva responsabilità alle Regioni”.

Secondo il presidente di OSA e di Confcooperative Sanità “C’è allora ben poco da tergiversare: la conferenza Stato-Regioni recepisca la acclarata volontà del Parlamento, senza inceppare un meccanismo ormai maturato in seno alla Storia. Va prefigurato un complesso di regole e di requisiti per le cure domiciliari, a partire dalla dotazione di pianta organica, su cui incardinare un sistema di offerta che sia conforme a standard elevati, senza indulgere invece, come purtroppo è già accaduto, in una declinazione burocratica dell’accreditamento, quale mero adempimento formale. È così che questa rivoluzione libererà i suoi effetti positivi spalmandoli su tutti gli attori coinvolti: i cittadini, che potranno esercitare il proprio diritto di scelta e godere di servizi qualitativamente migliori; il sistema pubblico, che qualificherà la propria capacità di offerta, soprattutto se sarà in grado di agire sull’attitudine all’innovazione organizzativa e tecnologica degli accreditati; gli operatori virtuosi, che vedranno riconosciuti i propri sforzi in termini di investimenti su professionalità, competenze e tecnologie.  Perché, per dirla con le profonde parole di Monsignor Vincenzo Paglia, «è ora di compiere un passaggio culturale di grande importanza: il Covid-19 ci ha insegnato che il territorio è decisivo, che le case dei nostri vecchi sono il teatro vero della battaglia per una sanità diversa, leggera, proattiva, che non aspetta i pazienti comodamente seduta al riparo delle istituzioni, ma li cerca e si muove verso di esse»”.

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